lunedì 1 febbraio 2010

Riflessione

Oggi non ho fantasia (pensavo tornasse prima, invece è ancora fra i venti del Nord).
Quindi oggi vi propongo da leggere un articolo, molto interessante e da tenere presente sempre a mio parere.

RIFLESSIONE
di GIANNI BERENGO GARDIN

La fotografia è una cultura. E come ogni cultura vive anche di rivoluzioni. Questo, per la fotografia, è stato l'arrivo del digitale: una rivoluzione, uno scarto, un cambio di punto di vista.
Una rivoluzione è rapida, coglie di sorpresa: oggi chi fotografa per mestiere può catturare un istante — che sia di cronaca, di sport, di guerra — e, il momento dopo che questo è avvenuto, farlo arrivare a New York, a Mosca o chissà dove con una velocità impensabile fino a non molto tempo fa. Una rivoluzione è democratica: oggi sono in tanti, tantissimi, quelli che, grazie al digitale, si avvicinano alla fotografia.
Una rivoluzione è forte, lascia il segno ma in questo caso il vero cambiamento, quello più profondo, non è legato alla rapidità di inviare gli scatti né ai progressi della tecnologia ma alla mentalità. Il digitale ha cambiato — e sta cambiando ancora — la mentalità di chi fa fotografia. Completamente. Come ogni cambiamento anche questo è nello stesso tempo un bene e un male. Dietro alla semplicità, all'ampliarsi delle possibilità c'è l'altra faccia della medaglia, il rischio, sempre vivo, di perdere di vista i confini tra quantità e qualità. Perché per essere un fotografo — professionista o dilettante — scattare fotografie non basta.
Dietro l'obiettivo devono esserci lo studio, l'impegno, il pensiero, come in ogni cosa. Ai miei ragazzi, quando tengo i corsi di fotografia, consiglio prima di tutto di guardare tanto, più che possono: quello che hanno intorno e gli scatti dei grandi maestri della fotografia. E’ questo quello che intendo quando parlo di cultura della fotografia e non è una cosa semplice né veloce da conquistare. Ci vogliono tempo e studio per imparare a selezionare e studiare un'immagine, un'inquadratura. Scattare non basta. Ma è vero, anche sbagliare aiuta: io mi ritengo uno di quei pochi privilegiati che usano ancora la pellicola tradizionale perché possono permettersi il lusso di non vedere immediatamente la foto che hanno appena fatto (e questo non significa che anch'io, qualche volta, non faccia qualche errore o qualche scatto senza senso...).
Fotografare è un diritto e in tempi di rivoluzione digitale sono sempre di più quelli che possono esercitarlo. E chissà che, tra tanti fotografi dilettanti (ma che non scordano l'impegno nel fare le cose) che si avvicinano in questo modo alla fotografia, a qualcuno non venga la curiosità di provare a scattare con la pellicola tradizionale, e magari si scopra un artista nascosto. Solo una cosa proibirei per legge: il fotoritocco con il computer. Perché violenta le fotografie, le snatura, le trasforma in «immagini». Ed è un pericolo anche per l'informazione, perchè non ci permette di sapere con certezza se quello che vediamo è vero o falso. Per questo negli Stati Uniti molti giornali oggi chiedono dichiarazioni di autenticità delle foto prima di pubblicarle e anche in Europa — in Francia — c'è chi propone di introdurre un bollino che certifichi la veridicità di uno scatto. Il falso, in fotografia, è sempre esistito: Stalin faceva eliminare gli avversari politici dalle foto ufficiali, ma se prima questo accadeva con una foto su un milione oggi il rapporto si è completamente ribaltato. Cercate la verità, quando fotografate.
E soprattutto guardate, riflettete. C’è uno slogan di una casa produttrice di apparecchi digitali che dice «Non pensare, scatta». Ai miei ragazzi dico: pensa, poi — casomai — scatta.

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